• 25 Novembre 2024 21:47

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Demolizioni navali in Asia, anche l’Italia sotto accusa

Ignazio Messina e Vittorio Bogazzi tra gli armatori “irresponsabili”

Armatori italiani sotto la lente di NGO Shipbreaking Platform, la coalizione di organizzazioni internazionali impegnata nella denuncia dei danni ambientali e sociali della demolizione navale “senza regole” effettuata sulle spiagge dell’Asia meridionale. “A livello nazionale, tra i Paesi che ogni anno contribuiscono all’inquinamento del subcontinente indiano, vi è l’Italia” sottolinea l’associazione, commentando l’annuale report sulle unità navali riciclate a livello mondiale nel 2014. Su undici navi appartenenti ad armatori italiani smantellate l’anno scorso, “ ben 8 sono state arenate per essere smembrate sulle spiagge asiatiche meridionali, per la precisione in India e Bangladesh”. Tra queste spicca la posizione di Ignazio Messina & C. Spa. “Nel solo 2014 – spiega NGO –  ha inviato 5 imbarcazioni (4 in India e 1 in Bangladesh) nell’Asia del Sud. Negli ultimi tre anni, ha fatto demolire in strutture non adeguate 12 unità della propria flotta, violando normative internazionali e nazionali”. Altro armatore “irresponsabile”  Vittorio Bogazzi & Figli Spa, che “nonostante abbia rottamato una sola nave in India nel 2014, ha inquinato le aree costiere di Alang (India) e Chittagong (Bangladesh) con 12 imbarcazioni nell’ultimo triennio”.
Su un totale di 1.026 navi smantellate a livello globale nel 2014, 641 – il 74% del tonnellaggio lordo totale (GT) riciclato – sono state vendute a strutture inadeguate in India, Pakistan e Bangladesh, dove i cantieri non rispettano le norme internazionali in materia di sicurezza sul lavoro e di protezione ambientale. Alto il bilancio segnalato da NGO dalla mancanza del rispetto delle disposizioni in materia di sicurezza: 23 morti e 66 feriti causati da esplosioni, cadute e crolli di enormi lastre di metallo. Senza contare le conseguenze sul lungo periodo del contatto diretto con materiali tossici presenti nell’ossatura delle navi (amianto, metalli pesanti, policlorobifenili, residui di olio combustibile e rifiuti organici).
“L’Asia meridionale è ancora il luogo preferito da numerosi armatori per abbandonare rifiuti tossici e non tossici, giacché si tratta di un contesto ove gli standard ambientali e sociali sono ignorati senza conseguenze” afferma Patrizia Heidegger, Executive Director della NGO Shipbreaking Platform. “Le compagnie navali vendono le proprie imbarcazioni a siti di smantellamento operanti sulle spiagge al fine di ottenere un profitto maggiore rispetto a quello che sarebbe loro garantito se decidessero di concludere affari con moderne strutture di demolizione”.
La peggior compagnia da questo punto di vista risulta essere la tedesca Ernst Komrowski con 14 navi vendute. Tutte le imbarcazioni facevano in precedenza parte della flotta Maersk e sono state oggetto di un contratto di locazione charter a lungo termine. Al secondo posto si trova Hanjing Shipping con 11 imbarcazioni seguita da MSC. “Le attività di demolizione delle navi MSC hanno già causato in India la morte di sei lavoratori nell’anno 2009, quando un incendio è scoppiato sulla MSC Jessica. Nonostante le critiche ricevute circa la gestione della sua vecchia flotta, MSC non ha ancora sviluppato alcuna politica volta a prevenire tali tragici incidenti”.
Contraltare ad una lista nera che contempla marchi noti come Petrobas, Conti, G-Bulk, Danaos, Yang Ming, TBS e Pacific International, il comportamento “virtuoso” di giganti del settore come Maersk and Hapag Lloyd, “impegnate a riciclare le proprie flotte in moderne strutture di demolizione”. “Ogni singolo armatore può fare la differenza: invece di usufruire dei servizi d’intermediari, vendendo per esempio la propria nave a cash-buyers, e perdere di conseguenza il controllo sul destino della stessa, le compagnie di navigazione possono dialogare con esperti in demolizione e negoziare le operazioni direttamente con moderne strutture di riciclaggio, “ rileva Heidegger. “L’adozione di una policy aziendale dedicata esclusivamente allo smantellamento navale da parte di armatori quali Teekay e Hapag Lloyd dimostra che le compagnie hanno la possibilità di fare scelte alternative”.
È quanto NGO chiede, ad esempio, alla Grimaldi Group. Con 5 unità inviate nel subcontinente indiano negli ultimi quattro anni, l’azienda napoletana ha deciso nel 2014 di demolire una sua nave (Repubblica di Roma) presso una delle strutture turche di Aliaga, “area che garantisce una maggiore protezione dell’ambiente e dei lavoratori viste le moderne tecniche adottate”. “Ci si chiede pertanto quale sia il motivo per cui Grimaldi non decida di optare, essendo a conoscenza delle differenze tra i metodi di demolizioni adottati in Asia del Sud e quelli europei, per uno smantellamento pulito e sicuro per tutte le proprie imbarcazioni”.
Nonostante il nuovo Regolamento Europeo n. 1257/2013 relativo al riciclaggio delle navi, entrato in vigore il 30 Dicembre 2013, il 34% del tonnellaggio lordo smantellato in Asia meridionale nel 2014 proviene dall’Ue (182 navi su 285 demolite complessivamente). A primeggiare, gli armatori ciprioti (92% della flotta smantellata), tedeschi (87%) e greci (76%). “A titolo comparativo, gli armatori cinesi, comprendenti anche quelli con sede ad Hong Kong, hanno fatto riciclare solo il 39% della flotta in India, Bangladesh e Pakistan”. La Cina, infatti, è ad oggi “l’unica grande nazione attiva nel settore navale che sta cercando di aumentare la propria capacità di demolizione al fine di raggiungere una gestione autosufficiente della propria vecchia flotta”.
A favorire il fenomeno anche la scelta di bandiere di comodo, “solo alcune settimane prima di raggiungere il subcontinente indiano”. “Come negli anni precedenti, specifiche bandiere di comodo come Saint Kitts and Nevis (64 navi), Comoros (39 navi), Tuvalu (24 navi), Tanzania (20 navi) e Togo (20 navi), che sono meno utilizzate durante il ciclo di vita operativo delle imbarcazioni, sono state issate nel 2014 da numerose navi durante il loro ultimo viaggio verso le spiagge asiatiche meridionali”.
“Qualsiasi tentativo di disciplinare il riciclaggio di navi basandosi solo sulla responsabilità della nazione di bandiera – conclude NGO –  avrà inevitabilmente poco impatto visto la popolarità delle bandiere ombra. L’introduzione di un incentivo economico volto a integrare il Regolamento rappresenta l’unica soluzione possibile. Senza tale meccanismo, l’utilizzo di bandiere di convenienza quali Tuvalu e Comoros è destinato ad aumentare, permettendo agli armatori di ignorare il dispositivo legislativo nel momento in cui sarà applicabile, e continuare ad inquinare le spiagge pakistane, indiane e del Bangladesh”.