“Accettare lo status quo in Europa, vorrebbe dire accettare un’Europa sempre più burocratica, che né sa più spiegare ai cittadini dove vuole condurli, continuando a funzionare in modo meccanico, né riesce ad unirli… . L’Europa è stata fondata su una promessa di pace, di progresso, di prosperità. Oggi serve un progetto che possa rinnovare questa promessa… . Servirà ad un certo punto un cambiamento dei Trattati, perché questa Europa è incompleta: il problema non è se questi cambiamenti saranno necessari, ma quando e come”.
Queste dichiarazioni, rilasciate in un’intervista ad un giornale francese e ad alcuni giornali tedeschi il 13 luglio scorso, alla vigilia della grande festa nazionale del 14 luglio e dell’incontro con Trump, nonché di un importante vertice con la Germania, sono di Emmanuel Macron, il neo-eletto Presidente francese. Sono innanzitutto la conferma della volontà di mantenere la promessa, fatta in campagna elettorale, di intervenire parallelamente nella politica interna francese – avviando un ciclo di riforme che tornino a dare slancio e competitività al paese – e nella politica europea, per dotare l’Europa degli strumenti necessari per costruire quei “pezzi di sovranità” collettiva nei settori che a livello nazionale non sono più controllabili e tantomeno governabili nell’interesse dei cittadini. Ma sono, soprattutto, la conferma del fatto che la Francia, dopo più di dieci anni, vuole voltare pagina, riconoscendo che la riforma dei Trattati europei non è più un tabù.
Per l’Europa si apre dunque un’opportunità straordinaria, perché questo atteggiamento francese prepara la possibilità di una rinnovata intesa con la Germania e di una ripresa del motore franco-tedesco, che è la condizione necessaria anche solo per poter pensare di avviare la riforma dell’UE.
Il nodo cruciale che Merkel e Macron sono chiamati a sciogliere, per rendere l’Europa capace di “rinnovare la sua promessa di pace, di progresso, di prosperità”, riguarda innanzitutto la natura del sistema istituzionale dell’Unione europea: sono pronte Parigi e Berlino ad avviare il superamento del sistema intergovernativo e a far compiere al sistema europeo il passaggio, nei settori ormai maturi, ad un sistema di natura federale? Oggi l’UE si basa sulla gestione, attraverso il cosiddetto metodo comunitario, delle competenze relative al mercato unico; in questo ambito, pur con alcuni miglioramenti necessari per “comunitarizzare” ulteriormente quelle prerogative ancora limitate dal mantenimento del diritto di veto da parte dei governi nazionali, la strada è tracciata, grazie al potere di iniziativa legislativa della Commissione e all’estensione dei poteri di co-decisione legislativa del Parlamento europeo. L’unica competenza gestita secondo un metodo quasi federale è l’unione monetaria che, per essere sostenibile, richiede tuttavia ulteriori condivisioni di sovranità nell’ambito della politica economica e di bilancio. Invece, proprio in queste ultime due materie, ed in generale in tutte quelle più legate al cuore della sovranità nazionale, come la politica estera e quella di sicurezza, sia interna che esterna, il sistema si basa sul cosiddetto metodo intergovernativo, vale a dire sulla ricerca in seno al Consiglio europeo e al Consiglio dell’accordo unanime dei governi, che si limitano ad impostare le forme di cooperazione, cercando di tutelare al massimo il proprio interesse specifico; qui la Commissione è politicamente subordinata agli Stati membri e il Parlamento europeo non ha voce in capitolo. Proprio per la sensibilità delle materie in questione, che sono al cuore della sovranità politica e che toccano il rapporto dei cittadini con il proprio Stato nel modo più profondo, il metodo comunitario non sarebbe adeguato in questi campi; questo sistema ibrido, che permette di coniugare l’integrazione sovranazionale nella legislazione e nelle materie funzionali alla costruzione del mercato con il mantenimento della sovranità politica nazionale (potere di decidere in ultima istanza su ogni materia sensibile), non è abbastanza efficiente dal punto di vista dei meccanismi decisionali e non è dotato di sufficienti checks and balances dal punto di vista democratico nel momento in cui sono in gioco politiche che investono la ragione più profonda dell’esistenza dello Stato. Ecco perché serve in questi settori un cambiamento molto più radicale, che comporta la costruzione di un vero potere politico sovranazionale, limitato a poche competenze precise, ma accompagnate dal potere di iniziativa politica, da risorse proprie, da un sistema di check and balances equilibrato che dia ai cittadini europei e agli Stati membri (in base al principio federale) adeguato potere di controllo.
L’ambito in cui questo passaggio è ormai maturo è l’eurozona, proprio per il paradosso che si citava prima di una moneta federale che si accompagna a politiche economiche e fiscali di competenza strettamente nazionale. Il completamento dell’Unione monetaria – con la creazione un bilancio specifico e di un governo sovranazionale controllato democraticamente – è ormai oggetto di riflessioni e proposte da molti anni, dallo scoppio, sostanzialmente, della crisi economica e finanziaria che ha mostrato i limiti di una moneta unica costruita senza creare anche un’unione economica e senza istituire un bilancio specifico, indispensabile per ammortizzare gli shock asimmetrici e stabilizzare l’area, promuovendo la convergenza. I cantieri aperti in Europa, che investono il mercato unico o che riguardano alcune tra le principali politiche strategiche degli Stati, sono molti, ovviamente; e certamente questo non è l’unico “dossier” che attende di essere sbloccato. Ma questo è il solo in cui è in gioco un passaggio decisivo e sostanziale sul piano istituzionale; l’unico in cui l’UE si pone il problema del “completamento”, perché si tratta di un settore in cui una condivisione cruciale di sovranità è già avvenuta, in cui è stata già creata una istituzione federale (la Banca centrale europea) e in cui la gestione intergovernativa delle politiche economiche e fiscali sta producendo danni che mettono a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’Unione europea. In tutti gli altri campi che pure animano il dibattito europeo, inclusa la questione della difesa e quella della sicurezza interna e della gestione dei flussi migratori, l’UE parte da molto più indietro, da gradi più o meno intensi di cooperazione tra paesi e governi nazionali, e ha ambizioni molto più limitate, che siano di intensificare la cooperazione (o di avviarla come nel caso della difesa), o di dare maggiore competenze alla Commissione, nel migliore dei casi; ma non è mai in gioco una trasformazione radicale dell’assetto dei poteri all’interno dell’UE, come è invece in gioco per l’eurozona. Non per nulla, anche nella intervista del 13 luglio, Macron si porta immediatamente sul punto: “Voglio che la zona euro abbia maggiore coerenza e maggiore convergenza. Al momento non funziona bene perché ha alimentato le divergenze. Quelli che erano già indebitati si sono ritrovati ancor più indebitati. Quelli che erano più competitivi si sono ritrovati ancora più competitivi… . Questa situazione non è sana, perché non è sostenibile… . Non si tratta di mutualizzare i debiti del passato, ma di combinare la convergenza e la solidarietà in seno all’Unione europea e alla zona euro, per creare dei meccanismi di solidarietà più potenti per l’avvenire. È la chiave per un’Unione capace di durare nel tempo. A questo proposito servono un bilancio, un governo che decide l’allocazione di questo bilancio e un controllo democratico che a tutt’oggi non abbiamo ancora”.
Il breve incontro tra la Cancelliera Merkel e il Presidente francese del 14 luglio sembra confermare questa analisi. Proprio perché il punto della riforma dell’Unione monetaria è quello cruciale, è anche il più delicato; ed è chiaramente questa la ragione per cui i due leader hanno concordato di affrontarlo solo dopo le elezioni tedesche. È noto infatti quanto aspro è il confronto in Germania, a questo proposito, con le forze che temono che una condivisione ulteriore di sovranità con i paesi debitori, verso cui non nutrono alcuna fiducia, non porti ad altro che ad una transfer union, e renda impossibile tenere sotto controllo il problema del moral hazard. Anche Merkel comunque ammette (lo ha ribadito il 15 luglio in un intervento pubblico a Zingst, riportato dalla Reuters) di essersi ormai convinta che l’Europa debba essere rafforzata e di essere “aperta alla proposta di un Ministro delle finanze dell’eurozona che sovrintenda ad un bilancio comune finalizzato ad investimenti e trasferimenti per aiutare gli Stati ad ammortizzare gli shock economici”.
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Nel momento in cui Parigi e Berlino si propongono di rilanciare il processo europeo, i punti su cui cercare e definire l’accordo sembrano dunque ormai maturi. Eppure rimane alto il rischio che possa prevalere una finta soluzione e che si cerchi ancora una volta di evitare di costruire un governo europeo genuino, scegliendo in alternativa di consolidare il sistema delle regole e il suo corrispettivo istituzionale, ossia il metodo intergovernativo. La forte propensione di una parte cospicua della classe politica e dirigente tedesca per questa opzione, insieme al tradizionale approccio intergovernativo francese, potrebbero ancora una volta far confluire in quella direzione il fermento e le aspettative che circolano nell’UE.
Non sarebbe certo la prima volta. Il processo europeo ci ha abituati ai contorcimenti dei governi per non imboccare la via più logica, quella dell’unione politica federale. Lo stesso Trattato di Maastricht, con la scelta della sola unione monetaria senza quella politica e quella economica, ne è un esempio; così come lo è, sempre in Maastricht, l’invenzione dei due pilastri fondati sulla cooperazione intergovernativa in materia di politica estera e di sicurezza e di giustizia e di affari interni, nel momento in cui queste materie strategiche dovevano in qualche modo essere “europeizzate”; nel Trattato si è trovato il sistema per simulare un passaggio politico, creando un’etichetta europea vuota e lasciando queste materie totalmente in mano agli Stati.
Il rischio quindi che l’accordo venga cercato per creare un governo intergovernativo della zona euro non deve essere sottovalutato. Decisivi a questo proposito saranno sia le aperture concrete per la creazione di un vero bilancio dell’eurozona, dotato di risorse proprie e abbinato ad un potere fiscale europeo (che richiederà sicuramente una riforma dei Trattati, ma che deve essere previsto e concordato come prospettiva sin da ora); sia il potere di codecisione che si vorrà attribuire al Parlamento europeo – anche in questo caso previa una riforma dei Trattati, che però deve essere prefigurata nella soluzione che si deciderà di impostare sin dalla fase iniziale. Senza prevedere un potere effettivo europeo, di natura sovranazionale e non intergovernativa, e senza costruire nuovi equilibri istituzionali che sottraggano alla gestione intergovernativa l’unione economica e preparino il completamento dell’unione monetaria attraverso la costruzione di un’unione politica fondata su basi di natura federale, i miglioramenti della governance dell’area euro non saranno sufficienti, né “a dare maggiore coerenza e maggiore convergenza alla zona euro”, né ad avviare quella riforma dell’Unione europea indispensabile per trasformarla nella potenza globale che le sfide del XXI secolo richiedono.Per gli altri partner dell’UE, questo deve essere sia un monito che uno stimolo, per ricordare l’importanza di impegnarsi a contribuire efficacemente a raggiungere un accordo sull’eurozona in grado di modificare il sistema in vigore e di dare vita ad un nuovo equilibrio istituzionale che permetta di affiancare le regole, che indicano dei parametri necessari, ma che da sole non possono bastare, con la politica, “che permette di combinare la convergenza e la solidarietà”. È un monito soprattutto per l’Italia, le cui forze politiche faticano più di altre a schierarsi con chiarezza su questo fronte: chi è a favore dell’Europa, non ha alternative rispetto ad impegnarsi per la costruzione dell’unione politica federale. I tentativi di imboccare scorciatoie con l’idea che “non siamo ancora agli Stati Uniti d’Europa…. E probabilmente non ci arriveremo mai”, come scrive Matteo Renzi nel suo ultimo libro, proponendo quindi battaglie di retroguardia per riportare le regole indietro di 25 anni – ignorando che il ritorno a Maastricht significa semplicemente il ritorno alle radici degli errori che oggi stiamo pagando – possono solo produrre danni. Questa, invece, è la vera posta in gioco: costruire la Federazione. Non bisogna aver paura di guardare in faccia la realtà e di scorgere l’opportunità che in questo momento si sta presentando agli europei; e soprattutto bisogna avere il coraggio di impegnarsi nella giusta battaglia politica.