In Giamaica sono in corso i lavori dell’ISA per discutere anche sulle licenze relative all’esplorazione del fondale marino. In questi giorni Irlanda, Brasile, Canada, Finlandia e Portogallo si sono uniti ai Paesi che chiedono una moratoria contro l’estrazione mineraria in acque profonde.
“Sappiamo ancora troppo poco sugli impatti che potrebbe avere il Deep Sea Mining, specialmente nel lungo periodo. Per questo è fondamentale adottare il principio di precauzione, mentre la ricerca svolge studi più approfonditi. Sarebbe un segnale di grande importanza, soprattutto nell’ambito della United Nations Decade of Ocean Science for Sustainable Development (2021-2030)”. Così Francesca Santoro, Senior Programme Officer della Commissione Oceanografica Intergovernativa (IOC) dell’UNESCO, commentando i lavori della 28ª sessione – attualmente in corso a Kingston in Giamaica (dal 10 al 21 luglio con il Consiglio, dal 24 al 28 luglio con l’Assemblea) – dell’International Seabed Authority (ISA), l’Autorità Internazionale delle Nazioni Unite che governa le attività estrattive minerarie in mare e che dovrà esprimersi in merito alle concessioni e alle licenze relative alle esplorazioni del fondale marino.
Il cosiddetto Deep Sea Mining (DSM), ovvero l’estrazione di metalli e terre rare nelle profondità marine, ha infatti degli impatti sull’oceano ancora poco noti e ancora non del tutto misurati e misurabili. Per far sì che i governi accelerino nel normare lo sfruttamento dei fondali marini, sempre più Paesi si stanno unendo alla campagna “Look Down” che, lanciata nel 2022, promuove una moratoria che normi lo sfruttamento dei fondali marini, almeno fin quando la ricerca non avrà dato risposte più chiare. Proprio in questi giorni – durante i lavori dell’ISA – Irlanda, Brasile, Canada, Finlandia e Portogallo si sono uniti ai Paesi che chiedono lo stop alle attività estrattive in mare, aggiungendosi così a Fiji, Palau, Samoa, Cile, Costa Rica, Ecuador, FSM (Stati Federati di Micronesia), Spagna, Nuova Zelanda, Francia, Germania, Panama, Vanuatu, Repubblica Dominicana, Svizzera e Svezia. “È davvero incoraggiante vedere che molti Paesi stanno aderendo alla richiesta di una moratoria internazionale – afferma Santoro – per bloccare la possibilità di condurre attività di estrazione fino a quando non si avrà un quadro più preciso sulle conseguenze a livello ambientale, così da proteggere l’oceano”. L’Italia fino ad oggi non si è espressa sul tema del Deep Sea Mining, ma prende parte alla riunione internazionale dell’ISA, in qualità del Consiglio.
La domanda per minerali come nickel, cobalto, rame e manganese sta infatti aumentando in maniera consistente in tutto il mondo. “L’estrazione di questi minerali dal fondo marino, fondamentali per la transizione ecologica, viene considerata come un nuovo mezzo per ottenerli, ma prima di farlo è essenziale comprendere appieno l’impatto ambientale di questa attività estrattiva dal profondo dell’oceano e confrontarlo con l’impatto ambientale dello stesso tipo di attività sulle terre emerse”, spiega Francesca Santoro.
La ricerca sull’impatto di queste attività sull’ambiente marino è ancora all’inizio, ma è noto che uno degli effetti principali sarà relativo allo sviluppo di nubi di sedimenti che contribuiscono ad aumentare la torbidità della colonna d’acqua e alla modifica degli ecosistemi marini, in particolare creando un impatto negativo sugli organismi pelagici, ovvero quegli organismi che nuotano e si muovono nella colonna d’acqua seguendo le correnti. “L’aumento della torbidità, inoltre, ridurrà la disponibilità di luce solare in acqua e quindi avrà un impatto sugli organismi marini che sono in grado di effettuare la fotosintesi. Inoltre ci sarà chiaramente un impatto diretto sugli ecosistemi marini del fondale e sugli organismi bentonici, che verranno rimossi assieme ai sedimenti”. Basti pensare che recentemente sono state scoperte dagli scienziati più di 5.000 nuove specie che vivono sul fondo del mare in un’area incontaminata del Pacifico equatoriale centrale (la Clarion-Clipperton Zone), che è stata identificata come zona interessante per l’estrazione mineraria, operazione che metterebbe la biodiversità a rischio.
È dunque necessario continuare a mappare i fondali marini (sea floor), e parallelamente coinvolgere e sensibilizzare, ed educare sul tema tutti gli stakeholder, incluso il settore privato. Ad oggi, l’ISA ha realizzato una mappatura per indicare la presenza dei giacimenti minerari subacquei finora identificati; per l’area Mediterranea non sono al momento presenti mappe che permettano di individuare dei giacimenti consistenti. “Questo non vuol dire che non ci siano, ma la questione è collegata ad uno dei problemi più grandi dell’oceano, ovvero la mancanza di una mappatura completa. Secondo i dati delle Nazioni Unite, ad oggi solo il 25% dei fondali oceanici è stato mappato. Anche per questo l’obiettivo dell’UNESCO, nell’ambito del Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile (2021-2030) delle Nazioni Unite, è quello di mappare almeno l’80% dei fondali marini entro il 2030 così da poter individuare e proteggere quante più aree possibili”. Tra i progetti in corso c’è ad esempio il Seabed 2030, che intende creare una mappa condivisa dell’intero oceano.
In questo contesto è di grande importanza anche l’approvazione dell’High Sea Treaty dell’ONU (Accordo per la Tutela dell’Alto Mare) che si propone di inserire entro il 2030 il 30% dei mari in aree protette, per salvaguardare e recuperare la natura marina, e in ogni caso prevede un’attenta valutazione di impatto ambientale prima che vengano rilasciate nuove concessioni per l’estrazione di minerali dal fondale.