a cura del Presidente FederPetroli Italia Michele Marsiglia con il contributo dell’Ambasciatore Massimo Lavezzo Cassinelli
Roma, 13 aprile 2021 – Nei miei viaggi in anni passati e durante le mie conversazioni con abitanti di quella parte di mondo chiamata Medio Oriente, in quel di Beirut e principalmente in un Libano sotto la ‘protezione’ ONU con il contingente UNIFIL, spesso si udivano frasi del tipo “…è preferibile arrivare in Giordania e lì guardare il futuro”, parole queste pronunciate in una Beirut non lontana, ma di anni recenti, sconvolta ancora per l’assassinio del Primo Ministro Rafik Hariri.
Stiamo parlando certamente di un Regno del Medio Oriente che per anni è stato considerato, anche se in una superficialità di pensiero, come un Paese calmo e da non creare disturbo: la Giordania.
Certamente un limbo di terra non piccolo, circondato da fulcri dominanti di un continente delicato, particolare e di notevole interesse sia culturale che economico. Paesi confinanti come Arabia Saudita, Iraq, Siria ed Israele con un pezzo di terra seppur piccola, ma delle più conosciute a livello mondiale, l’area della West Bank, territori palestinesi in quota alla così poi denominata Cisgiordania. La Giordania, uno dei primi governi arabi a riconoscere la terra di Israele.
Non particolarmente ricca di attività volte alla produzione di idrocarburo, nonostante la sua posizione vicino Paesi ricchi di olio e gas, ma interessante per le riserve dislocate di Shale-Oil e scisti da sabbie bituminose. Diverse compagnie petrolifere internazionali come la Royal Ducht Shell hanno siglato accordi per la fornitura di milioni di metri cubi di Gas Naturale Liquido (LNG) al terminale di Aqaba. Non meno importante le attività esplorative mirate a determinare la consistenza di giacimenti di gas naturale al confine con l’Iraq.
Ma oggi la situazione è diversa, ci troviamo in un Regno dove gli scontri raramente negli anni sono diventati pubblici, se non per chi dall’interno ha vissuto il Paese più direttamente. Un Regno arabo che ha riconosciuto per primo la centralità delle donne nelle diverse iniziative internazionali e che con il tempo hanno inondato quel glamour delle riviste di moda con la consorte del Re, la Regina Rania, donna nata in Kuwait da genitori palestinesi.
Dopo quanto accaduto qualche mese fa alla Famiglia regnante saudita, dopo le vicissitudini che già anni fa avevano colpito la Turchia, oggi anche in Giordania si grida al complotto.
Un complotto, un colpo di Stato che conferirebbe oggi alla Monarchia Hashemita, una delle più antiche del mondo arabo, con a capo Re Abdullah II, una immagine di debolezza nascosta per anni nel silenzio diplomatico.
Per un cenno storico, la famiglia governò la Mecca tra il Decimo secolo e il 1921, e secondo la tradizione discenderebbe direttamente da Maometto: re Abdullah II farebbe parte della 42esima generazione di discendenti.
Siamo in Medio Oriente e, come non mi stancherò mai di ripetere, terra bella ma difficile, dove l’idea di democrazia e potere è ben lontana e diversa dagli usi occidentalizzati di un mondo che si pensa essere moderno. Un fratellastro, il principe Hamzah bin Hussein, accusato di ordire un colpo di Stato ai danni del Sovrano. Non è tanto la piccola vicenda che per alcuni tratti mette in scena mediatica sul piano internazionale una saga tragica, quasi comica, da telenovela, ma bensì come una tale notizia o un meglio non definito membro di corte o di famiglia per discendenza, bisbiglia con persone poco raccomandabili da mettere in serio pericolo un Regno e l’intera Famiglia Regnante.
Se il rischio di colpo di Stato c’è, dovremmo allora percepire anche un malcontento popolare all’interno del Paese o è tutta una montatura da parte di quel Medio Oriente che reputa il Regno di Giordania ingombrante? Anche qui la trama si infittiste, come in Libia, di leader tribali e terzi che sono parte integrante di una terra mediorientale frammentata nel suo insieme di Stati e Regni. Una terra strategica e di notevole importanza internazionale, intrisa di rivalità familiari che vengono da lontano, forse come dicono in molti, causate da scelte dinastiche del defunto Re Hussein.
Due fratellastri di madri diverse, dove uno è Re e l’altro è dipinto come un carismatico esponente della Famiglia Reale, in ottimi rapporti con i capi tribali beduini, figure dominanti della dinastia Hashemita che compongono buona parte dell’esercito e dei servizi di sicurezza del Paese.
Qualche giorno fa le ultime parole pubbliche del Re Abdullah II: “La crisi è finita”. Ma forse siamo solo all’inizio.
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Massimo Lavezzo Cassinelli
Ho prestato servizio all’Ambasciata d’Italia presso il Regno Hashemita di Giordania fra il 1989 e il 1991. Si è trattato della mia seconda esperienza all’estero e della prima nel mondo arabo: un mondo molto complesso, dove non sempre ciò che appare corrisponde alla vera sostanza delle cose, ma allo stesso tempo affascinante e capace di impartire lezioni di grande importanza dal punto di vista umano e professionale.
La Giordania è sempre stata il ‘vaso di coccio‘ fra i ‘vasi di ferro‘ delle varie potenze regionali: non solo per le dimensioni relativamente piccole, ma anche e soprattutto per le limitate risorse economiche. La sua stessa nascita come Stato, avvenuta dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948, quando l’Emirato di Transgiordania, guidato dalla dinastia hashemita, occupò la Cisgiordania e Gerusalemme Est, fu molto controversa e costò fra l’altro la vita al Re Abdullah I, bisnonno dell’attuale Sovrano, assassinato nel 1951 da un attivista palestinese.
Sotto la risoluta guida di Re Hussein, nipote di Abdullah I, che regnò dal 1952 al 1999, il Regno Hashemita di Giordania consolidò a poco a poco la sua statualità, nonostante le guerre e i sommovimenti che sconvolgevano frequentemente l’intero Medio Oriente.
Il principale problema che Hussein dovette affrontare, al di là delle relazioni formalmente conflittuali (ma spesso sostanzialmente collaborative) con Israele, fu quello palestinese. La Palestina fu infatti l’unico degli ex Mandati britannici e francesi a non ottenere un proprio Stato: moltissimi profughi si riversarono quindi in Giordania, dove i Palestinesi continuarono ad affluire anche nei decenni seguenti, fino a costituirne almeno la metà della popolazione. Hussein riuscì peraltro a mantenere la stabilità del Regno, a volte con metodi molto duri come in occasione del Settembre Nero del 1970, ma più spesso con grande abilità di mediazione fra i Palestinesi stessi e le tribù beduine che costituivano e costituiscono l’autentica base della monarchia hashemita.
Sono stato testimone ad Amman degli avvenimenti di una breve porzione del regno di Hussein. Breve ma di grande importanza, in quanto la monarchia hashemita fu costretta a subire le conseguenze dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, avvenuta il 2 agosto 1990: un nuovo forte afflusso di profughi, l’intervento militare di una coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti sotto l’egida dell’ONU e la susseguente prima Guerra del Golfo. La Giordania non partecipò come altri Stati arabi al conflitto contro l’Iraq, né avrebbe potuto farlo in quanto la stragrande maggioranza della popolazione -e soprattutto quella di origine palestinese- sosteneva Baghdad; ma il Sovrano riuscì comunque a dare al proprio popolo l’impressione di non venir meno all’amicizia con il potente vicino, pur non abbandonando la collocazione filooccidentale della Giordania. Fondamentale fu ovviamente la decisione israeliana di non reagire ai missili iracheni, che causarono gravi danni a varie città dello Stato ebraico: qualora Tel Aviv fosse intervenuta, infatti, sarebbe stato ben difficile per Amman, geograficamente ‘schiacciata’ fra i due contendenti, evitare di essere coinvolta.
Dopo la guerra, con l’accresciuto afflusso di persone (ma anche di capitali) di origine palestinese, si aprì un nuovo capitolo anche per la Giordania. Il Re nominò per la prima volta un palestinese, Taher Al Masri, come Primo Ministro e, in generale, l’importanza della popolazione palestinese si accrebbe in tutti i settori della vita politica ed economica, spesso con disappunto della componente beduina, la cui prevalenza nell’immediata cerchia del Sovrano venne comunque confermata.
Giungiamo qui al diretto contatto con i fatti dell’attualità. Poco prima di morire, nel 1999, Hussein aveva tolto al fratello Hassan il titolo di Principe Ereditario, attribuendolo al figlio Abdullah, che aveva sposato sei anni prima la palestinese Rania Al Yassin, futura icona di ‘glamour’ non solo per il mondo arabo. Hassan, pur ovviamente deluso da questa decisione arrivata in extremis -ma sostanzialmente logica-, l’aveva accettata di buon grado, dimostrando assoluta fedeltà al Sovrano e non accettando di trasformarsi in punto di riferimento per i non pochi giordani preoccupati per la possibile trasformazione del Regno in uno Stato palestinese ‘de facto’ (soluzione da tempo appoggiata, fra l’altro, da vari circoli israeliani).
Oggi la storia sostanzialmente si ripete: Re Abdullah II ha tolto (in realtà già da qualche anno) il titolo di Principe Ereditario al fratellastro Hamzah, attribuendolo al proprio figlio maggiore, anch’egli di nome Hussein. Hamzah non ha probabilmente mostrato, in proposito, la stessa docilità dello zio Hassan, accarezzando forse per qualche tempo l’idea di prendere il posto di Abdullah, con il possibile appoggio di vari circoli interni alla Corte e soprattutto di alcune importanti tribù beduine. Venuto alla luce il progetto, Abdullah lo ha rapidamente stroncato con una raffica di arresti e con l’eufemistica ‘protezione’ accordata ad Hamzah, incaricando contestualmente proprio il vecchio zio Hassan, protagonista in prima persona -come si è visto- di una vicenda simile, di risolvere la disputa dal punto di vista familiare.
Decisione ferme ma sagge, che indicano come Abdullah II abbia ereditato dal padre molte delle sue capacità: un viatico, questo, da considerare positivo per il futuro della fragile Giordania.
BIONOTE
Michele Marsiglia è presidente della FederPetroli Italia. Da più di 20 anni si occupa di progetti strategici nell’Oil & Gas internazionale. Inizia la sua carriera negli Approvvigionamenti Strategici in Outsourcing, approdando dopo alcuni anni all’Agip Petroli (oggi ENI Group) per poi gestire alcuni processi di sviluppo per importanti Raffinerie e Società Petrolifere. Da anni la sua figura è chiamata a rappresentare aziende dell’indotto industriale per Agreement strategici e di Relazioni. Fondamentale il suo coinvolgimento in Libia e in parte del Medio Oriente. Membro di Comitati Scientifici negli Organismi di studio geopolitico, da anni affronta le tematiche del Medio Oriente e del Continente Africano focalizzando l’interconnessione delle dinamiche economiche, politiche e del dialogo interreligioso.
Massimo Lavezzo Cassinelli ha fatto parte del servizio diplomatico italiano dal 1982 al 2016. Dopo un primo periodo alla Farnesina presso la Direzione Generale Affari Economici, ha iniziato nel 1985 la sua prima missione all’estero, all’Ambasciata d’Italia in Ecuador. Successivamente ha prestato servizio presso le Ambasciate in Giordania, in Perù e in Egitto, oltre che come capo del Consolato italiano a Berna. E’ stato poi Rappresentante Permanente Aggiunto presso la FAO, il PAM e l’IFAD. Ha infine ricoperto le cariche di Ambasciatore d’Italia in Armenia e nel Principato di Monaco. Ha concluso la carriera al Cerimoniale Diplomatico della Repubblica