di Felice Magarelli – La verità giace ancora sul fondo dell’Adriatico insieme ai resti del “Francesco Padre”, il motopeschereccio appartenente alla marineria molfettese che a seguito di un’esplosione avvenuta il 4 novembre del 1994, si inabissò a largo delle coste montenegrine con tutto il suo carico umano.
Le varie inchieste susseguitesi negli anni non sono state sufficienti a rendere giustizia ai cinque marittimi pugliesi che si trovavano a bordo dell’imbarcazione.
Gli ultimi accertamenti eseguiti dalla magistratura inquirente scartarono l’ipotesi che il natante trasportasse illegalmente armi, lasciando conseguentemente aperti diversi scenari: quello più realistico riconducibile ad un tragico errore delle forze Nato all’epoca impegnate a fronteggiare la guerra civile nell’ex Jugoslavia; un tentativo di intimidazione a scopo estorsivo della criminalità della zona; la deflagrazione di un ordigno bellico incappato accidentalmente nelle reti.
Occorre ricordare che il recupero di alcuni residui del relitto, evidenziò sulla fiancata dell’imbarcazione, un foro compatibile con un proiettile denominato “PIT” (perforante-incendiario-tracciante) di chiara matrice militare.
Inoltre documenti Nato ormai desegretati escluderebbero la presenza in quell’area, quella notte, di unità navali montenegrine.
Tuttavia la totale assenza di risposte alle rogatorie internazionali e la scarsa collaborazione dei Paesi coinvolti (Stati Uniti, Serbia e Montenegro), aveva impedito, nei fatti, di fare piena luce sulle dinamiche dell’accaduto.
Nonostante siano trascorsi venticinque anni dalla tragedia, ribattezzata non a caso “l’Ustica del mare”, per i familiari delle vittime, oltre al silenzio assordante delle istituzioni, resta purtroppo anche il grande rimpianto di non aver potuto seppellire degnamente i corpi dei loro cari.