Contratto scaduto, bloccati i porti principali della West Cost
Picchetti, nuovo contratto, licenziamenti facili, rivendicazioni salariali. Scambi di accuse tra sindacati e datori di lavoro. Ma non è Pomigliano. E nemmeno Italia. Il teatro della battaglia sono state le banchine dei porti gemelli americani – Los Angeles e Long Beach – paralizzati da uno sciopero di ben otto giorni (27 novembre – 5 dicembre).
A fermare il sistema portuale attraverso cui passa il 39,5% dell’import USA (595 mila addetti nel settore logistico) l’iniziativa del piccolo sindacato Office Clerical Unit che rappresenta i circa 800 impiegati del porto di Los Angeles addetti alla documentazione dei container. Impiegati, dunque, che hanno ottenuto l’appoggio dell’Ilwu (International Longshore and Warehouse Unit), potente organizzazione del lavoro che conta 50 mila portuali della costa Ovest, del Canada e delle Hawaii.
Risultato: navi ferme in rada (a tutt’oggi più di venti) o dirottate nei porti vicini, maratone negoziali, appoggio incondizionato dell’ITF (il sindacato internazionale dei marittimi) alle richieste di rinnovo del contratto (scaduto nel 2010) e, soprattutto, di un minor ricorso alle pratiche di esternalizzazione dei servizi. Una risposta alla crisi, scelta dai terminalisti per abbattere il costo del lavoro, che si è tradotta in un’ulteriore precarizzazione per gli addetti del settore.
Il blocco delle attività, con venti di protesta che stanno alzandosi anche sulla costa est, si è ripercosso a breve sui rivenditori al dettaglio. Tanto da indurre la National Retail Federation a investire del problema lo stesso presidente Obama chiedendo di ristabilire la piena operatività degli scali.
Era dal 2002 che i porti americani non erano investiti da una contestazione così dura. Intanto cominciano i primi bilanci. Lo stallo delle – tra ritardi, penali da pagare, fermo per oltre 8mila camionisti – circa un miliardo di dollari.
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