• 22 Novembre 2024 03:13

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Traffico illecito di rifiuti, allarme globale

E’ dai porti che comincia l’emergenza

 

Genova, Venezia, Napoli, Gioia Tauro e Taranto. Sono i principali porti di riferimento per i traffici illeciti di rifiuti che partono dall’Italia. Un’emergenza globale che solo nel nostro Paese negli ultimi dieci anni ha registrato 31 inchieste, con 156 arresti, 509 denunce, 124 aziende sottoposte a provvedimenti giudiziari e con il coinvolgimento di ben 22 paesi esteri. Ultima, in ordine di tempo, “Golden plastic” che ha portato lo scorso 6 dicembre alla scoperta nel porto di Taranto di una organizzazione transnazionale, attiva in diversi scali della penisola, che ha portato al sequestro di 114 container contenenti rifiuti plastici e copertoni.

La punta di un iceberg per un fenomeno che coinvolge tutti i continenti e vede una sorta di specializzazione internazionale del lavoro. Nei paesi africani, ad esempio, giungono al termine di complicatissime triangolazioni fusti con sostanze particolarmente pericolose e non riciclabili, insieme a auto rottamate e materiali ferrosi (principalmente rame); nell’Est e Centro Europa, con il coinvolgimento di imprese della Campania, rifiuti destinati a termovalorizzatori e discariche; in Estremo Oriente e soprattuto in Cina, invece, migliaia di container contenenti plastica, carta, metalli, legno destinati alle miriadi di piccole e medie aziende dell’entroterra dove saranno riciclati al di fuori di ogni legge e senza alcun trattamento.

È solo una parte del piccolo catalogo dell’orrore presentato ieri a Roma nel corso della Conferenza sul traffico illecito di rifiuti organizzata dal Consorzio PolieCo, da Legambiente e dall’Istituto Interregionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Crimine e la Giustizia (Unicri). Nel 2010 – spiega il dossier Ecomafia Globale – sono state sequestrate 11.400 tonnellate di rifiuti diretti prevalentemente in Cina, India, Africa, il 35% dei quali composto da materie plastiche e pneumatici fuori uso.

Quanto scoperto finora, però, non è altro che una minima parte, visto che ogni anno, solo dall’Italia, si movimentano circa 4.400.000 container, 750 mila dei quali diretti in Cina. “I sequestri hanno riguardato, in particolare, soprattutto rifiuti di carta e cartone (37%), materie plastiche (19%), gomma (16%) e metalli (14%). Circa il 90% delle spedizioni di rifiuti di carta e cartone e di materie plastiche sequestrate era destinato in Cina, mentre il 70% delle spedizioni di gomma e pneumatici era destinato in Corea del Sud. I metalli erano destinati per il 48% in Cina e per il 31% in India, mentre le parti di veicoli erano destinate prevalentemente in Cina, Egitto e Marocco, con percentuali rispettivamente del 34%, del 15% e del 12%”.

Ma come avvengono questi traffici? Per aggirare la Convenzione di Basilea – che dal 1992 regolamenta i movimenti transfrontalieri di rifiuti tra paesi Ocse e non Ocse – i trafficanti fanno ricorso alle triangolazioni tra paesi e alla falsificazione dei documenti di accompagnamento dei carichi (la tecnica del giro-bolla). I container, in poche parole, passano di mano in mano per far perdere le loro tracce, da un intermediario a un altro, da un paese a un altro: Italia-Germania-Olanda-Hong Kong-Cina, ad esempio. Di regola, cinque, sei, sette passaggi per carico.

“A differenza di qualche anno fa, – ha commentato Stefano Ciafani, vicepresidente nazionale di Legambiente – i trafficanti internazionali di rifiuti non esportano oltre confine solamente scorie tossiche non riutilizzabili, come melme acide, scorie chimiche o radioattive  ma materiali da riutilizzare, in aperta violazione sia delle leggi, sia delle regole di libero mercato, sfruttando a proprio vantaggio le potenzialità economiche degli scarti e scaricando i costi sulla collettività”. Stando alle stime della Guardia di Finanza, infatti, se “lo smaltimento legale di un container di circa 15 tonnellate di rifiuti pericolosi ha un costo medio di 60 mila euro, la via illegale riesce ad abbattere questo costo anche del 90%”.  

A fronte degli indubbi successi ottenuti negli ultimi tempi nella repressione del fenomeno, anche grazie all’introduzione del “delitto di attività organizzata di traffico illecito di rifiuti” (art. 260 del D. Lgs. 152/2006), va però profilandosi un’ulteriore problema che riguarda in special modo le aree portuali. Una volta sottoposti a provvedimento giudiziario, i container rimangono fermi nelle banchine sine die: alle volte perché materiale probatorio per le procure, altre a causa dell’inazione delle Provincie o delle Regioni che diventano automaticamente responsabili dei carichi e, semplicemente, non se ne prendono cura.

Questa situazione, denuncia il dossier, “sta trasformando di fatto molti dei nostri porti in discariche di cassoni di rifiuti accatastati uno sull’altro, anche pericolosi. È evidente che occorre varare un nuovo provvedimento normativo per risolvere questi problemi e rendere più efficace, anche dal punto di vista della sostenibilità economica e della sicurezza ambientale, lo strumento, fondamentale, dei sequestri”.